Cataclismi naturali e una politica miope hanno
relegato nell’ oblio luoghi di inestimabile bellezza
Lucia Lucente
Nell’ aspra e selvaggia terra calabra, là dove i
monti custodiscono antichi segreti e nelle vallate risuona ancora l’ eco di un tempo ormai svanito, si ergono, silenziosi e solenni, i paesi fantasma. Sono borghi, che, un tempo, palpitavano di vita, intrecci di voci, fatica e speranza, oggi muti testimoni di un passato, che il destino ha voluto fosse remoto.
Questi villaggi abbandonati, immersi in scenari di incomparabile bellezza, sono il risultato di cataclismi naturali, frane, terremoti e di quel lento, ma inesorabile esodo verso luoghi, che offrono svariate possibilità lavorative. Ciò che rimane non sono solo pietra e polvere, bensì memoria viva, incisa tra le rovine. Tra questi borghi:

Acerenthia (Cerenzia Vecchia), adagiata nell’ entroterra crotonese, si erge come un relitto della storia. Un tempo, centro florido e crocevia di scambi agricoli e commerciali, fu, progressivamente abbandonata, nel corso del XIX e XX secolo, mentre gli abitanti si riversavano verso il più moderno insediamento di Cerenzia Nuova. Oggi, Acerenthia si offre al visitatore come uno scrigno di rovine nobili, custode di leggende e arcane suggestioni;
più a sud, tra le pieghe impervie dell’Aspromonte, si trova Africo Vecchio, un villaggio segnato da ferite profonde. Dopo il terremoto del 1783, fu la frana del 1951 a decretare definitivamente il suo destino, sradicando le ultime speranze di vita. Gli abitanti si rifugiarono altrove, fondando Africo Nuovo, mentre il vecchio borgo rimase intatto, come cristallizzato nel dolore della perdita;

Pentedattilo, suggestivo paese avvolto nel mito e scolpito nella roccia, domina il paesaggio con la forma inconfondibile di una mano – da cui il nome greco, che significa “cinque dita”. Nato in epoca classica, visse momenti di splendore nel Medioevo, prima di cedere all’abbandono. Oggi, è un palcoscenico sospeso nel tempo, dove la pietra racconta storie e il vento porta con sé l’eco di antiche voci e leggende. Continua a vivere solo grazie a numerose iniziative turistiche;

Roghudi Vecchio, borgo, che si aggrappa ai pendii dell’Aspromonte, appare come un fantasma di pietra tra le gole selvagge della Calabria meridionale. Nato probabilmente nel XIII secolo, visse del lavoro di pastori e contadini, fino a quando frane e alluvioni non ne decretarono la fine. Dagli anni Settanta, il silenzio ha preso possesso delle sue vie tortuose, ma chi vi si avventura giura di percepire ancora il respiro del villaggio.

Infine, noi abitanti di Sgf non possiamo dimenticare Infantino, un tempo la frazione più grande e popolosa di San Giovanni in Fiore, contando, negli anni sessanta, quasi ottocento abitanti.
Oggi rimangono le abitazioni a testimoniare un passato rurale vitale e produttivo. Negli ultimi anni, si anima solo in occasione della festa di “San Giuvanniellu”, quando il santo viene portato in spalla lungo i vicoli del luogo. Il tutto si conclude con la musica ed i fuochi d’artificio.
Negli altri periodi dell’anno, soltanto qualche nostalgico ivi si reca a coltivare gli ulivi, per ricavarne l’olio per la provvista annuale.
Questi borghi, pur svuotati dalla presenza umana, restano altari della memoria, icone malinconiche di un’Italia, che fu, dove la bellezza si mescola al mistero e il tempo sembra prostrarsi all’ autorevolezza del ricordo.
Visitare i paesi fantasma della Calabria non è soltanto un viaggio nel passato: è immergersi nell’anima profonda della regione, con il suo cuore antico che, sebbene ferito, continua a pulsare tra le pietre.

