L’Europa e la “rassegnazione”al
conflitto
Lucia Lucente
Sullo scacchiere internazionale, la piovra della guerra espande i suoi tentacoli sul Vecchio Continente, mentre, in un’inversione, che sa di paradosso, è oltre l’Atlantico che si levano le voci della prudenza. L’attuale temperie bellica, intrecciata all’esito incerto della controffensiva ucraina, impone una riflessione su come si sia giunti a questo punto, ripercorrendo le tappe di un’escalation inarrestabile e che sembra aver smarrito il senso delle proprie premesse.
All’ inizio, le cancellerie occidentali si limitavano a fornire armamenti definiti “difensivi”, un concetto volutamente sfumato. Col progredire del conflitto, però, quella prudenza si è dissolta, passo dopo passo: prima i mezzi corazzati di fabbricazione tedesca e americana, poi i missili a raggio esteso, ora la ventilata possibilità di fornire caccia di quarta generazione e, sullo sfondo, l’ipotesi, sempre più probabile, di un coinvolgimento diretto delle forze terrestri europee, con il Governo italiano altalenante tra la” simpatia”per Trump e la necessità di uniformarsi alle decisioni dell’ U.E.
Quella che, inizialmente, era percepita come un’ iniziativa “ una tantum “, cioè un intervento circoscritto per arginare l’avanzata russa, si sta trasformando in una realtà permanente, un orizzonte bellico che, ormai, si radica nelle opinioni pubbliche. Eppure, i sondaggi segnalano una opposizione, sempre più forte verso questa corsa agli armamenti. Il barometro del consenso, tuttavia, sembra aver perso ogni presa sui governi, avviati lungo un pendio inclinato, da cui risulta sempre più arduo tornare indietro.
Il presupposto, che regge questa deriva, è la necessità di evitare il collasso del fronte ucraino, per scongiurare un’espansione russa oltre i confini della NATO. C è da chiedersi se tale postulato resista davvero al vaglio della realtà. Perfino il Cremlino riconosce l’abissale disparità tra la potenza bellica dell’Alleanza Atlantica e quella della Federazione Russa, uno squilibrio di portata tale da rendere irrazionale, se non addirittura suicida, qualsivoglia aggressione diretta al blocco occidentale. Con gli Stati Uniti, i quali da soli assorbono quasi il 40% della spesa militare globale, a fronte di un esiguo 3,5% attribuibile alla Russia, l’ipotesi di un’invasione russa dell’Europa si configura più come un artificio retorico che come una prospettiva concreta.
Eppure, nel recente discorso di Putin, vi è un passaggio, che getta un’ombra oltremodo inquietante: l’avvertimento che un intervento diretto di truppe occidentali in Ucraina le trasformerebbe in bersagli legittimi, con tutto ciò che ne deriverebbe in base all’articolo 5 del Trattato di Washington. Un simile sviluppo dissolverebbe ogni ambiguità strategica, spalancando le porte a un conflitto su
larga scala, che l’Europa non conosce dal 1945.
Ciò che più preoccupa è, però, la progressiva “normalizzazione”di questa prospettiva. Quella che, un tempo, sarebbe stata considerata una sciagura impensabile, è, ormai, oggetto di simulazioni fatte a tavolino, di dibattiti asettici, in cui la ricerca di un’alternativa diplomatica sembra quasi un’ingenuità. La guerra, si dice, è necessaria per garantire la pace, in un paradosso, che sembra uscito dalle distopie orwelliane.
Eppure, la storia insegna che il conflitto non è un destino ineluttabile. Clausewitz ci ha spiegato che la guerra è la conseguenza ineluttabile di volontà inconciliabili, non una legge di natura. Il fatto che la potenza militare sia una componente essenziale degli equilibri tra gli Stati non significa che la guerra debba essere la sola via percorribile.
È il momento di riscoprire il valore dell’arte negoziale, prima che il treno della storia imbocchi , come capitato, per ben due volte, nel secolo scorso, un binario senza ritorno. Oltre quell’orizzonte, infatti, non si scorge altro che l’abisso, mentre “ la bestia umana”, assetata di sangue, continua a pretenderne sempre più.
E intanto Trump ha scatenato una sua guerra: quella dei dazi!