Un aereo è pronto a decollare per l’ Italia, ma serve il lasciapassare di Israele
Lucia Lucente


Nel cuore di una terra lacerata, tra le rovine di ciò che un tempo fu una casa, sopravvive Adam al-Najjar. Ha undici anni, un braccio distrutto, il corpo segnato, ma è l’anima a urlare il dolore più profondo. Dei suoi nove fratelli resta il silenzio, un silenzio più assordante delle esplosioni, che li hanno cancellati. Accanto a lui, solo sua madre, la dottoressa Alaa, rimane a raccontare ciò che fu: una famiglia, un sogno, un amore palpitante tra le macerie di Khan Younis, oggi ridotta a polvere e vuoto.
La notte, in cui un bombardamento israeliano ha distrutto la loro casa, ha segnato anche la fine di Hamdi al-Najjar, padre di Adam, pediatra stimato e uomo di rara gentilezza. È morto dopo ore di agonia, sotto il
cielo di Gaza, che quella sera sembrava carico
di fuoco e silenzio. In un attimo, una generazione è svanita. Sono rimasti in due: una madre, con le mani ancora sporche del sangue degli altri e un figlio, a cui la guerra ora minaccia di togliere anche l’uso del braccio sinistro.
Un velivolo attende sulla pista, in terra di Giordania;è pronto a sollevarsi nel cielo, a compiere il suo volo di speranza. Milano ha già spalancato le porte: l’Ospedale “Niguarda”si è detto pronto ad accogliere il piccolo Adam e tentare il prodigio della chirurgia. L’11 Giugno è segnato sul calendario come il giorno della possibile rinascita.
Manca un lasciapassare, che solo Israele può concedere. E il tempo, ora più che mai, si fa nemico silenzioso e inesorabile.


A invocare la luce, in queste tenebre fitte, è Nashwa, sorella di Hamdi. Anni or sono, dimorò a Napoli, dove si prese cura del proprio figlio e oggi si è appellata alla diplomazia italiana, implorando aiuto.
“Disponiamo del mezzo per raggiungere il vostro Paese”-afferma-“I medici hanno attestato la fattibilità del trasferimento, ma occorre il permesso”.
Sette persone dovevano partire: Adam, la madre, uno zio, Nashwa con il marito e il figlio. Un gruppo minuscolo in un mare di dolore, un frammento di umanità ancora in piedi. Le finestre per l’evacuazione – il 4 e il 9 giugno – però, rischiano di svanire come miraggi nel deserto dell’indifferenza.
L’Italia è pronta. Le parole del vicepremier Antonio Tajani risuonano chiare: “Abbiamo già portato 130 bambini da Gaza. Ora vogliamo salvare anche Adam”. La volontà politica, però, da sola, non basta a superare i muri della burocrazia e, soprattutto, i confini invalicabili tracciati dalla guerra.
Nel mezzo, c’è una madre, Alaa, la dottoressa, che curava i figli degli altri, ora costretta a mendicare una cura per il proprio. Ha perso tutto e nel suo sguardo resta un’ultima fiammella: Adam. Non chiede vendetta, né giustizia. Chiede soltanto che non le venga strappato anche il suo ultimo palpito d’amore.
“Non lasciate morire anche la sua ultima speranza”, implora Nashwa. E con lei, lo chiedono in molti. Perché nel volto di Adam non c’è solo la tragedia di Gaza, ma le domanda eterne, che la storia rivolge al mondo: fino a quando chi ha sofferto dovrà implorare per vivere? A quando la fine di questo terribile incubo? Può un popolo , che è stato martoriato, diventare , a sua volta, carnefice di un altro, fino a rasentare il genocidio?
In un cielo pregno di fumo, un aereo aspetta e, con con esso, una possibilità di cominciare a curare non solo un braccio, ma ciò che resta dell’infanzia, della maternità e, forse, dell’umanità.