Può una vita umana avere meno valore di una borsetta, se pur con “documenti importanti “?
Lucia Lucente
In una società sempre più complessa e contraddittoria, la vicenda di Cinzia Dal Pino e Said Malkoun squarcia il velo su una delle domande più antiche e universali: quanto vale la vita umana? Quanto una borsetta, seppur contenente documenti importanti, può giustificare un atto, che porta alla soppressione di un essere vivente? E che ne è del senso di umanità, quando l’ira, la paura o il desiderio di giustizia personale si trasformano in un gesto definitivo e irreversibile?
I fatti, nella loro fredda concretezza, sono inquietanti. Un’ imprenditrice rincorre con la sua automobile un giovane algerino, Said Malkoun, che le aveva sottratto una borsa. Un oggetto di valore simbolico, certamente, intriso di quel senso di proprietà e intimità che ci lega ai nostri beni. Il valore materiale, tuttavia, persino quello emotivo, di un oggetto è infinitamente inferiore a quello di una vita umana. Eppure, il confine tra rabbia e brutalità si è dissolto in pochi attimi. L’imprenditrice non si è limitata a inseguire, ma ha investito, ripetutamente, il giovane, strappandogli la vita.
Qui risiede l’assurdità più profonda. Si può davvero parlare di un semplice scatto d’ira o della frenesia di voler recuperare un oggetto rubato? La furia, che alimenta un simile gesto, non è giustificabile nemmeno con la necessità di recuperare documenti preziosi. Sostenere, come ha fatto la donna, che non vi era intenzione di uccidere, ma solo di recuperare la borsa, non mitiga l’efferatezza dell’azione; anzi, rende ancora più acuto il dilemma morale e giuridico.
La vita umana, preziosa e insostituibile, si trova di fronte alla tirannia di un oggetto, un simbolo del possesso, del controllo, del potere. Ciò che è stato violato, in questo tragico episodio, è il nostro stesso senso di umanità. Cio’, infatti, che dovrebbe spaventarci di più, non è solo l’omicidio in sé, ma la deriva di un’epoca ,che legittima l’uso della violenza come risposta, che trasforma un furto in una sentenza di morte.
In un contesto di tensioni sociali e pregiudizi radicati, la nazionalità della vittima, Said Malkoun, non può essere trascurata. Quanti, nel profondo, hanno già minimizzato la tragedia, pensando che si trattasse “solo” di un immigrato? Questo episodio mette a nudo anche le crepe profonde della nostra coscienza collettiva, incapace di riconoscere il valore universale della vita, indipendentemente da chi la vive, da dove proviene o da quali siano le sue circostanze.
E, dunque, ci si interroga: è giusto che un’azione simile, in cui un oggetto è posto al di sopra della vita di un essere umano, possa trovare anche solo una minima giustificazione? Niente, nessun documento o oggetto materiale, dovrebbe mai indurre una persona a calpestare, così profondamente, i confini dell’umanità.
Nel ricordare Said Malkoun, non possiamo che chiederci cosa si possa fare, affinché episodi del genere non si ripetano. Forse, la risposta sta in una profonda riflessione sui valori che, come società, vogliamo preservare. In un mondo dominato dal materialismo, la vita deve rimanere al di sopra di ogni cosa. E ogni volta che ciò non avviene, perdiamo tutti un pezzo di umanità.