Non solo uno dei tanti conflitti, ma una lacerazione della coscienza collettiva
Lucia Lucente


Nel cuore del“ mare nostrum” , Gaza brucia nella totale indifferenza di tutti. I numeri parlano, ma il grido più lancinante è quello delle vittime taciute.Tra le macerie e le urla, è soprattutto il pianto straziante dei bambini a domandare giustizia, a reclamare un’umanità smarrita.
Ciò che si consuma dinanzi agli occhi del mondo, non è soltanto l’ennesima tragedia bellica. È, piuttosto, una lacerazione profonda dell’anima collettiva, uno sprofondare nel baratro della disumanità. È la metodica distruzione di ogni fondamento etico, la soppressione della pietà, la cancellazione delle norme, che, un tempo, osavamo chiamare universali. Di fronte al sangue, che macchia la terra, alle scuole mutate in sepolcri, agli ospedali svuotati di speranza, l’umanità indietreggia, smarrita e vergognosa della propria inerzia.
Non è soltanto un conflitto; non possiamo rifugiarci nella neutralità della semantica. Qui si sta consumando un genocidio: parola pesante, sì, ma non differibile, se non si vuole peccare di ipocrisia. Quando un popolo diventa merce sacrificabile sull’altare della geopolitica, allora siamo davanti al volto più crudele della Storia.Eppure il mondo tace. Le diplomazie oscillano tra il calcolo e la codardia. Le istituzioni internazionali, nate con la promessa di garantire la pace e la dignità, oggi sembrano svuotate di potere e di coraggio. Le risoluzioni si susseguono come preghiere sussurrate in una chiesa vuota. Ma le preghiere, senza volontà, non fermano i massacri.
Nel deserto della coscienza globale, la voce dei morti di Gaza appare come un canto funebre, che si leva fino al cielo. È un canto che chiede giustizia, che invoca memoria, non retorica, che pretende verità.
L’umanità, se ancora osa attribuirsi tale nome, è ora chiamata a scrutare il proprio riflesso. Ogni ordigno, che squarcia Gaza, lacera, altresì, il cuore di chi sceglie il silenzio. Ogni fanciullo strappato alla vita è un marchio d’infamia sul volto di questo secolo, che proclama diritti con fierezza, mentre ne calpesta l’anima. E ogni giorno, che trascorre privo di risposte, è un giorno in cui il mondo tradisce la propria essenza più profonda.
In mezzo alle tenebre più fitte, si leva ancora una fiammella: la speranza che il dolore, urlando con voce instancabile, riesca, infine, a scuotere le coscienze assopite. La giustizia, se non può colmare l’assenza di ciò che è stato crudelmente sottratto, abbia almeno la forza di arginare l’emorragia dell’ingiustizia.
Perché Gaza non è un luogo remoto: è una ferita viva, pulsante, incisa nel cuore stesso dell’umanità. E finché non avremo il coraggio di medicarla, di prendercene cura, con mani e coscienza, non potremo davvero considerarci umani nel senso più pieno e profondo del termine!