Rinunciò ai beni terreni, per dedicare la sua vita a Dio.

di Lucia Lucente

Agli inizi del secolo scorso, nell’ atmosfera austera di un monastero benedettino, dove il tempo pare scorra al ritmo cadenzato della preghiera e del lavoro, si dipano’ l’ iter di un giovane aristocratico, che, rinunciando agli sfarzi della sua casata, si ritirò in clausura, cercando la vera nobiltà nel servire l’ Onnipotente.
Figlio, se pur cadetto, di una stirpe illustre, destinato a ereditare titoli e ricchezze, egli avrebbe potuto trascorrere l’ esistenza nei salotti della nobiltà, tra ozio e lusso, guadagnandosi il plauso dei potenti e l’ammirazione delle dame. Il suo cuore, però, lungi dall’essere affascinato dalle effimere gioie mondane, ardeva di un desiderio più alto, di una fiamma interiore, che lo chiamava lontano dai fasti del palazzo e dalle brame del potere.


Fin dalla più tenera età, egli avvertiva che la vita terrena, con le sue promesse ingannevoli, non avrebbe potuto saziare la sete della sua anima. Le mura della sua dimora, ornate da quadri ed affreschi, gli apparivano come una prigione dorata, mentre la voce di Dio sussurrava dolcemente, ma insistentemente, nella profondità della sua anima, invitandolo a inoltrarsi nei “ floridi sentieri della speranza, ai campi eterni…”
Fu così che, in un’alba gravida di presagi, egli si accomiatò dalla sua famiglia e dai privilegi della sua nascita, volgendo i passi verso il chiostro monastico, ove l’eco del mondo si spegneva nel canto gregoriano e il frastuono della vanagloria lasciava spazio alla meditazione contemplativa.
Nel rigore dell’abbazia, il giovane aristocratico, divenuto monaco, si dedicò, con fervore, alle sacre discipline, abbracciando la Regola di San Benedetto con uno zelo, che destava la ammirazione dei suoi confratelli. Le sue mani, avvezze a sfiorare le sete e le gemme, si indurirono nel lavoro umile della terra; la sua mente si tuffò a capofitto nello studio delle Scritture, leggendo ogni versetto come un viandante, che cerca la via nel deserto dell’esistenza.
La sua ascesi non era mera mortificazione del corpo, ma un volo dello spirito verso le altezze della perfezione evangelica; il digiuno e le veglie notturne non erano per lui privazioni, bensì strumenti di purificazione, affinché il suo cuore divenisse un tabernacolo degno della presenza divina.
Il suo cammino di perfezione, però, come una meteora, che solca il firmamento, si consumò in breve tempo. Una malattia crudele, improvvisa e inesorabile, lo colse nel pieno della sua giovane età, quasi a suggellare, con il sigillo del sacrificio, il suo itinerario verso il Cielo.
Sul letto di morte, il suo volto non tradiva timore né rimpianto, bensì la serena consapevolezza di chi ha trovato la propria dimora nell’ Eterno. Con un ultimo sussurro, egli affidò la sua anima al Signore e con un sorriso dolcissimo si spense, lasciando dietro di sé un alone di beatitudine, che avrebbe continuato a risuonare, per molto tempo, a San Giovanni in Fiore, paese di origine.
E coloro che avevano bollato la sua scelta come follia, cominciarono a scorgere il riflesso di una Grazia più alta, segno invisibile di un disegno divino.
La storia di Don Giustino testimonia che la vera nobiltà non si misura in titoli e possedimenti, ma nella grandezza dell’anima. Il giovane aristocratico, che aveva rinunciato a una corona terrena per una più preziosa e incorruttibile, divenne esempio fulgido di rinuncia e sacrificio, dimostrando che il cammino della santità è aperto a tutti, anche a coloro che nascono tra gli agi e le ricchezze.
Nel suo vissuto si riflette la perenne tensione tra la mondanità e lo spirito, tra la carne e la grazia, tra l’effimero e l’ eterno. E nel suo esempio risuona ancora l’invito evangelico, che egli accolse con tutto se stesso: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi.» (Matteo 19,21).