La tragedia del popolo palestinese e il silenzio assordante dei media
Lucia Lucente

È desolante assistere, giorno dopo giorno, al lento naufragare dell’etica nell’oceano dell’informazione pubblica; al triste spettacolo di una televisione di Stato che, obliando la propria missione, si fa coro monocorde, intonando, con ostinazione, il lamento per gli ostaggi israeliani, mentre tace, o appena sussurra, dinanzi all’immane tragedia, che si abbatte, come un uragano di dolore, sul martoriato popolo palestinese.
Mentre gli schermi scintillano di immagini selezionate, montate con la precisione chirurgica del consenso, il mondo reale si dissangua: migliaia di vite spezzate, corpi straziati, città ridotte in cenere, bambini morti o mutilati , famiglie travolte da un turbine di polvere e silenzio.

Eppure, di tutto questo, nei notiziari ufficiali resta soltanto un’eco lontana, un rumore fastidioso da soffocare con la cura maniacale delle frasi. La Storia, se soltanto vi prestassimo attenzione, ci avrebbe insegnato a discernere l’eterno meccanismo della menzogna celata sotto il manto della verità. Ogni epoca annovera i propri cantori ufficiali, sacerdoti laici della narrazione dominante, maestri nell’arte di plasmare la coscienza collettiva come molle argilla nelle loro mani.
Per decenni, le stesse voci, che oggi pontificano sull’ordine e sulla civiltà, hanno costruito la favola della “malvagità dei pellerossa”, un mito grottesco volto a camuffare il più feroce dei genocidi: quello perpetrato contro i popoli nativi delle Americhe, sterminati, umiliati, cancellati dalle mappe e dalla memoria.
I carnefici si fecero narratori e gli oppressi, depredati della parola, divennero comparse in un racconto scritto col sangue.
Oggi, la dinamica si ripete: il racconto del mondo è nuovamente nelle mani di chi detiene il potere d’immagine, non di verità.
Viviamo immersi in un teatro mediatico, dove la compassione è selettiva, la pietà è programmata e la sofferenza diventa materiale di montaggio.
L’ informazione , che dovrebbe essere il respiro critico della democrazia, si riduce a sceneggiatura; la tragedia reale di un popolo intero si dissolve nel linguaggio asettico dei comunicati, nelle grafiche patinate, nelle parole calibrate per non disturbare il comodo sonno delle coscienze.
Si piange la sofferenza di alcuni, ma si nega l’umanità di altri; si eleva a tragedia ciò che conviene e si lascia cadere nell’oblio ciò che potrebbe incrinare la narrazione dominante.
È un rituale antico di ipocrisia, un rito laico celebrato nei templi dello share, dove la verità, se mai affiora, viene subito ricoperta dal velo lucente della propaganda.
Non vi è nulla di più ignobile della manipolazione del dolore.
Quando la sofferenza diventa strumento di consenso, quando il lutto viene selezionato in base all’utilità politica, si spegne l’ultimo lume della dignità civile.
In questa distorsione morale, il dolore degli uni è amplificato fino a diventare simbolo universale, mentre quello degli altri viene minimizzato, negato
o dissolto in un linguaggio di comoda ambiguità: “danni collaterali”, “operazioni di difesa”, “necessità militari”.
Così il male si traveste da necessità e la compassione diventa di parte.
Una televisione di Stato non è , o non dovrebbe essere, uno strumento di governo, ma di cittadinanza.
Il suo dovere non è sedare, ma risvegliare; non è proteggere i poteri costituiti, ma interrogare la coscienza collettiva.
Ogniqualvolta il servizio pubblico abdica alla propria funzione critica, tradisce, non solo la verità, ma anche la democrazia.
Il cittadino, esposto a un racconto mutilato, è privato del diritto di comprendere; e una società, che non comprende, non giudica e, dunque, non sceglie.
Vergogna per chi manipola le emozioni dei popoli, per chi distingue fra vittime degne e vittime superflue, per chi trasforma il dolore in strumento di dominio.
La storia non perdona gli scribi del potere, né coloro che, avendo voce, scelgono il silenzio.
Ogni generazione lascia ai posteri una traccia della propria coscienza: la nostra, forse, sarà ricordata come quella che scelse di non vedere, di non ascoltare, di non sentire. Finché , però, esisterà qualcuno disposto a denunciare il falso, a spezzare la catena della complicità, la parola potrà ancora redimere il silenzio.